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Georg Friedrich Handel
Ariodante
Blu Ray
Direttore d’orchestra: Gianluca Capuano - Regista: Christof Loy - Ariodante: Cecilia Bartoli
Re di Scozia: Nathan Berg - Ginevra: Kathryn Lewek - Lurcanio: Rolando Villazon
Polinesso: Christophe Dumaux - Dalinda: Sandrine Piau
Una piccola premessa: io continuo a pensare che il DVD ed il Blu Ray siano i mezzi per eccellenza per la fruizione dell’opera lirica fra le pareti domestiche. E’ necessario rimarcarlo perché, paradossalmente, il video commerciale è un mezzo in palese declino, un declino inarrestabile in cui sta seguendo lo stesso destino del CD.
Io stesso, che ascolto ormai esclusivamente musica liquida da una delle piattaforme streaming, non acquisto più un CD da mesi. Ma il DVD e il Blu Ray non meritano questa fine: l’opera è uno spettacolo completo, che non comprende solo la musica, ma si compone anche di recitazione, coreografia, scenografia e movimenti di scena. In una parola è teatro, e il teatro giunge alla nostra percezione sia attraverso il medium visivo che attraverso il medium auditivo. Ed è un peccato che esistano case discografiche come la Outhere Music, che hanno sotto contratto alcuni tra i più grandi interpreti di opere barocche, e colpevolmente ne tengono nel cassetto i video già registrati e pronti per la commercializzazione, per un calcolo meramente ragionieristico che – con tutto il rispetto per la categoria – ne rende il ruolo più simile a quello di bottegai che di imprenditori culturali. E’ per questo che un bel Blu Ray come quello, recentemente messo in commercio, che immortala la messa in scena dell’Ariodante di Handel al Festival di Salisburgo del 2017, è da accogliere con entusiasmo, un entusiasmo – come vedremo – ampiamente meritato. Ariodante è l’opera di Handel più ricca di contrasti drammatici, quella in cui più di ogni altra il grande Sassone ha curato in maniera certosina la psicologia dei personaggi, quella in cui il livello delle arie è costantemente alto e senza cali di tensione: in una parola, si gioca alla pari il titolo di capolavoro assoluto dell’Handel “italiano” con il Giulio Cesare, forse vincendo la tenzone in ragione di una maggiore compattezza e di una maggiore coerenza drammaturgica, nonché per una cura musicale di altissimo livello anche dei personaggi cosiddetti “secondari”. Si tratta di un’opera che ha una storia discografica breve ma importante: tre edizioni di alto livello, ma in qualche modo imperfette. La prima, quella di Nicholas McGegan, illuminata dalla grande e compianta Lorraine Hunt, ma senza grandi voli dal punto di vista della direzione; la seconda, quella di Marc Minkovsky, che ha proprio nel “title-role” il suo tallone di Achille, essendo Anne Sofie Von Otter interprete barocca monocorde, matronale e priva del mordente che un ruolo “en travesti” richiederebbe; la terza, di certo la migliore, quella di Alan Curtis, dove giganteggia una Joyce DiDonato in stato di grazia, e che sarebbe una registrazione perfetta se tutti i cantanti fossero allo stesso livello. A queste tre registrazioni, aggiungerei il DVD realizzato a suo tempo al Festival di Spoleto, con una grandissima Ann Hallenberg nel ruolo eponimo, ma funestato da pesanti tagli. Nel caso presente, dato che siamo al cospetto di Cecilia Bartoli, è palese come tutto giri attorno a lei, come – in sostanza – si tratti di uno spettacolo costruito su misura sulle sue esigenze e sulle sue capacità. Ma per nostra fortuna ciò avviene in contesto di altissimo livello, con una compagnia di canto che si permette il lusso di affidare ruoli “secondari” a fuoriclasse del calibro di Rolando Villazon e Sandrine Piau. Per fortuna la regia, in abiti moderni e con ambientazione “astratta” e neutra, rispetta in maniera certosina la trama, senza stravolgerla come spesso l’eccesso di Ego di molti registi porta a fare in parecchi sciagurati casi che sanno più di stupro che di operazione culturale. L’unica “stranezza” è nelle introduzioni parlate al Primo ed al Terzo atto, dove vengono esposte delle cervellotiche elucubrazioni sull’identità sessuale del protagonista, che per fortuna rimangono fini a se stesse, senza per nulla ripercuotersi sullo spettacolo, che invece scorre piacevole e coinvolgente, aiutato da una recitazione sempre adeguata. Il vero valore aggiunto di questo spettacolo è tuttavia nella direzione, a dir poco strepitosa, di Gianluca Capuano, di una libertà, di una flessibilità agogica, di una sensibilità per gli abbellimenti inusitata rispetto a quel che conosciamo fino ad oggi di questo capolavoro. Capuano è un fine intellettuale, che – pur avendo iniziato relativamente tardi la carriera di direttore d’orchestra – ha saputo trasfigurare in maniera intelligentissima la ricerca filologica sull’uso degli strumenti originali e sulla prassi esecutiva barocca. Non solo permette e prescrive a tutti i cantanti abbellimenti e cadenze spettacolari nei daccapo, ma contribuisce da par suo sottoponendo i suoi “Musiciens du Prince Monaco” ad abbellimenti e variazioni con una fantasia che lascia a bocca aperta e ci riserva soprese quasi in ogni dove. Amplifica ed estremizza i contrasti, accelerando spesso all’inverosimile le arie movimentate, ma nelle due grandi arie patetiche del Secondo atto (“Scherza infida” e “Il mio crudel martoro”) sceglie tempi lentissimi, ai limiti della sostenibilità, mettendo a dura prova le possibilità dei cantanti di mantenere una linea di canto lunghissima senza romperne la tensione e l’unità. Ho qualche perplessità – e qui vado in controtendenza rispetto agli “osanna” che unanimemente ne accompagnano le prestazioni – proprio sulla grande star dello spettacolo, ossia la Cecilia nazionale, che si presenta in scena con una barba alla Conchita Wurst. Se le scelte interpretative di Gianluca Capuano le si attagliano a pennello nelle arie di agilità, che risultano sempre scintillanti, esplosive ed esaltanti, il filo sembra talmente sottile da rischiare di rompersi proprio nell’aria più bella e giustamente più nota dell’opera, ossia “Scherza infida”. I quasi 13 minuti di durata dell’aria, contro gli 8-10 consueti, possono reggere solo in presenza di una cantante particolarmente versata per il canto spianato. Con Cecilia Bartoli svanisce l’effetto emotivo travolgente di un’aria che già di suo, a mio parere, non può essere eseguita con un tempo eccessivamente lento, pena la neutralizzazione di quella “rabbia repressa” che sottende al suo senso testuale. La Bartoli sopperisce ai suoi limiti con pause, piccole nuances ben realizzate, una recitazione impeccabile, ma alla fine l’aria – che in ogni rappresentazione dell’Ariodante è il momento più atteso – lascia un po’ con l’amaro in bocca e risulta emotivamente “raggelata”, soprattutto se si pensa alle prestazioni coinvolgenti, emozionanti, al calor bianco, offerte da Alan Curtis sia nella registrazione in studio (con Joyce DiDonato) che nel DVD registrato a Spoleto (con una grandissima Ann Hallenberg). E’ dai cosiddetti “comprimari” che otteniamo invece il meglio. Ad esempio, la giovane statunitense Kathryn Lewek nel ruolo di Ginevra, autrice di una prestazione indimenticabile. Soprano di coloritura, eccellente virtuosa, riesce a dare il meglio in ogni istante in cui è in scena. E, nel caso dell’altra grande aria patetica “Il mio crudel martoro”, anche in questo caso realizzata da Capuano in un tempo lentissimo, con una durata anche stavolta ai limiti dei 13 minuti, regge benissimo la linea di canto lunga ed espressiva, emozionando e giustificando di fatto la scelta agogica inconsueta del direttore. Lo stesso dicasi per la sempre straordinaria Sandrine Piau, soprano di età non più giovanissima ma dalla voce intatta, vero e proprio monumento vivente del canto barocco, che offre una Dalinda impeccabile e dalla grande sostanza musicale ed interpretativa. Un altro lusso è Rolando Villazon, tenore che siamo abituati ad ammirare in altri contesti più tipicamente belcantistici, che magari si mostra un po’ a disagio nelle arie d’agilità, ma che mette in scena finalmente un Lurcanio interpretato da un tenore vero, vocalmente ricco e potente, in contrasto con i pallidi tenorini a cui ci avevano abituato i precedenti interpreti di Ariodante. Grande anche la prestazione del controtenore Christophe Dumaux nel ruolo di Polinesso. Dumaux ha una bellissima presenza scenica, è un grande attore e soprattutto è uno dei più bravi falsettisti in circolazione, uno che fa della sostanza musicale il centro del proprio lavoro, contrariamente ad alcuni “divi” (penso, ad esempio, all’inascoltabile Franco Fagioli) la cui fama supera di gran lunga le qualità effettive. Forse l’unico neo vero di questa produzione è Nathan Berg nel ruolo del Re di Scozia, un basso canadese già avvezzo al barocco, ma soprattutto al barocco francese ed al mondo – molto diverso – della “tragedie lyrique”, che pur godendo di una bella presenza scenica e di una buona vocalità, sconta il prezzo di una pronuncia italiana insoddisfacente ed artificiosa. Insomma, non abbiamo ancora l’Ariodante perfetto, che è di là da venire soprattutto perché si tratta di un’opera complessa, ricchissima di spunti, che richiede una compagnia di canto senza pecche, ma questa volta Gianluca Capuano, con la sua eccellente direzione e con il suo senso del dramma, vi si è avvicinato come mai nessuno prima di lui. Un Ariodante, questo, che andrebbe affiancato a quello in solo audio di Alan Curtis (più “classico” e meno originale, ma di grande sostanza), soprattutto per la sua ottima riuscita, ma anche perché apre strade nuove, si muove in direzione di una maggiore libertà esecutiva ed apre la strada verso un nuovo modo, più intenso e più drammaturgicamente pertinente, di approcciarsi a questo capolavoro assoluto dell’opera barocca. Giuseppe Massimo Culcasi |