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Kaleido Sea
Buena Ventura
Angapp
L'incontro casuale di tre talentuosi musicisti pugliesi sfocia in una collaborazione fra pari, fra incisive esperienze di vita, fra differenti modi di intendere la musica, dando vita ad un kaleidoscopio di colori, umori, sentori, odori e ritmi.
Nascono i Kaleido Sea. Con un nome che è già un programma, incantato ed ispirato dalla variopinte acque del Mediterraneo, Vito Ottolino (chitarra), Viz Maurogiovanni (basso elettrico) e Cesare Pastanella (percussioni) parlano di sé, ma soprattutto parlano del mondo in una chiave trasversale e sinaptica che percorre il jazz e lo rinnova ed arricchisce di passaggio in passaggio, facendosi infondere le diversità e le complessità delle culture musicali dei popoli del bacino del Mediterraneo, ma anche da quelli caraibici, africani e mitteleuropei, con le quali ciascuno degli autori è venuto in contatto. Il nome del gruppo, Kaleido Sea, è già tutto un programma e potrebbe facilmente produrre aspettative non troppo facili da rispettare; kalós "bello", éidos "figura”. Tali concetti, etimologicamente alla base del nome del gruppo, sono uniti all’immagine di libertà e sconfinatezza che il riferimento evocativo al mare (“sea”) è capace di sprigionare. Tuttavia, il loro disco d’esordio, Buena Ventura, colpisce presto proprio per la sua spiccata efficacia espressiva, che fa di una vivace policromia di stili e figure la sua cifra caratteristica. Si tratta di un’opera di genere etno-jazz, caratterizzata da rimarchevoli apporti originali, di vocazione cosmopolita, in grado di abbracciare e reinterpretare influssi stilistici diversi con la fluidità tipica di un linguaggio stilistico maturo negli esiti e ben ragionato nei propositi. A tale carattere si affiancano stimolanti influssi jazz-funk, che contribuiscono a donare un taglio di contemporaneità e leggerezza. In Buena Ventura, infatti, non si cerca la contaminazione “meta-fisica” in guisa di una qualche acefala velleità emulativa; tale contaminazione sembra bensì fluire da uno sguardo sul mondo che è esso stesso totalità e contaminazione. Da ciò discende anche una certa e inevitabile complessità stilistica che diventa fisiologica per il discorso musicale, accompagnandosi però a un sentimento che è manifestazione di una stratificazione culturale ed emotiva incondizionata. In tale quadro, non si può fare a meno di scorgere l’intima tensione di richiami fra il caldo lirismo della chitarra e l’irrefrenabile vitalità del basso, impegnato in un accompagnamento impeccabile. Ma più di tutto, inaspettata e ben accolta è anche la tendenza verso movenze “progressive”, che sembrerebbero essere direttamente mutuate dal rock, nonché a tratti alquanto reminiscenti dell’impronta stilistica, per esempio, dei Genesis "gabrieliani"; specialmente se considerata la loro egregia capacità di rifarsi ai canoni della musica classica senza apparire classici tout court. A essere piacevolmente tratteggiato, allora, è un orizzonte in cui è impossibile separare il tempo del ricordo dal tempo del presente, l’apollineo dal dionisiaco, lo splendore dalla decadenza, in una dimensione emotiva che partendo dallo stilema jazz si inerpica in fregi ora africani, ora andalusi, ora europei. Insomma, davvero una piacevole scoperta. Un album che si lascia ascoltare coinvolgendo l'ascoltatore nel viaggio virtuale che rappresenta, senza tralasciare che la registrazione, quantunque non strettamente audiophile, appare essere naturale e ben poco manipolata. Vincenzo Genovese - William Moschetta |