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Talk Talk - Spirit of Eden  
& Laughing Stock

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Il vintage ormai impazza. Oggetti dal dubbio gusto e qualità, solo per essere ancora in buono stato nonostante gli anni trascorsi, divengono, molto spesso senza merito, icone della moda del momento inducendo molti e poco avveduti utenti ad acquisti sconsiderati in relazione al reale valore degli oggetti. Questo avviene in ogni campo della nostra esistenza, dai veicoli a motore, fino all'abbigliamento, passando per la nostra passionaccia, l'hifi e la musica.

Capita sovente, che oggetti degli anni 70' e 80' vengano proposti in vendita a cifre esorbitanti e che l'allocco di turno ci caschi, ritenendo di aver acquistato un must, da esibire e sfoggiare come fosse un gioiello di inestimabile valore. Ed eccoci tutti a rovistare in mercatini alla ricerca del Sacro Graal. Ricordo, anni addietro, che dal mio carrozziere celate sotto dei teli di protezione vi erano due automobili, protette gelosamente. Alla mia curiosa domanda di sapere cosa fosse così bene custodito, l'artigiano orgogliosamente rispose di aver restaurato una coppia di Fiat 500 degli anni 70', riportate a nuovo con grande dispendio di energie e volle mostrarmele, pensando che io potessi essere un potenziale acquirente. Scopertele........"orrore" .....due fiammanti e sfolgoranti freak, una di colore blu perlato Ferrari e l'altra British Racing Green, con cerchi in lega della Mini Cooper, e cofano motore elettricamente apribile e diviso in due parti a vasistas, scarichi Abarth et similia.

Me le propose, la prima ad 11.000,00 euro e la seconda a 10.000,00.....non so come ho fatto a mantenere un distaccato contegno. Resta il fatto che però, non so a quanto, il carrozziere è riuscito a venderle.

In questo generale marasma di proposte vintage, ovviamente, non tutto è robaccia perchè vi sono degli oggetti che meritano qualche sacrificio, così come in ambito musicale, non tutta la produzione degli anni 80' (decennio nel quale si è dipanata la mia adolescenza e formazione audiofilo musicale) è da buttare o dimenticare.

E' è proprio il caso dei Talk Talk.

Questo gruppo musicale, guidato dalla malinconica e vulcanica verve di Mark Hollis, dalla sua voce velata di significati ed intrisa di sentimenti ha avuto una evoluzione per certi versi antitetica rispetto a quella della maggior parte delle altre band. Normalmente accade che la miglior produzione, la più significativa ed artisticamente autentica ed originale sia quella dei primi anni di una rock band, perchè spesso, quando si raggiunge il successo, in maniera inversamente proporzionale, si vada a perdere la vena creativa. Invece i miei beniamini, nel breve lasso di meno di un decennio, si sono evoluti a tal punto, in maniera unica e sorprendente, da lasciare un imprescindibile testamento per le generazioni musicali a venire. Una (anzi due) autentica "pietra miliare" della musica rock.

Mi riferisco a "Spirit of Eden", album maturo e seminale pubblicato nel 1988 ed alla sua naturale evoluzione Laughing Stock, pubblicato nel 1991.

Un breve excursus è d'uopo. Agli inizi degli anni 80', quando rifulgeva la stella dei Duran Duran, i Talk Talk, da breve formatisi, si incanalano supinamente nella corrente del momento, sfruttando le stesse "linee" produttive (Colin Thurston) degli allora celeberrimi alfieri del sinth-pop. Il loro primo album "The party is Over" (1982) non ottiene che un mediocre risultato. Con il loro secondo album "It's my life" (1984), già si intravede qualche barlume della straordinaria stoffa, in quanto la musica si evolve e si raffina con arrangiamenti già più complessi ed originali. Rimarchevoli i brani "Dum Dum Girl", "Such a shame", "It's my life" e la bellissima "Tomorrow started". Con cadenza biennale i nostri "sfornano" i loro lavori, infatti nel 1986 pubblicano l'album "The colour of the spring", disco di passaggio dalla dipendenza dai modaioli stilemi ad una produzione indipendente nel gusto e nella creatività. Da ricordare "Happiness is easy", "I don't belive in you", "Life's what you make it", "Give it up". Ma è nei brani "April 5th" e "Chameleon Day" che traspare quella che sarebbe stata la futura concezione musicale del gruppo, con un deciso viraggio verso sonorità jazz a forma libera.

Come dicevo, due anni dopo nel 1988, esce "Spirit of Eden". Una specie di concept album dal contenuto alla grafica della copertina. Tutto è ammantato di bianco ed illuminato nella rarefazione di attimi di lucidità, con improvvisi alternarsi di note scandite a picchi violenti e distorti di chitarre elettriche e armoniche. La rottura con il passato pop è autentica e pulsante, sanguinosa e dolorosa con il rifiuto dei suoni sinth che tanto imperversavano in quel periodo. Ricorrono all'utilizzo degli archi, a strumenti acustici, fiati (tromba, oboe, clarinetto e corno inglese), all'organo, al pianoforte ed all'armonica nell'accentuare e sottolineare la voce malinconica ed intrisa di dolore di Mark Hollis, meditabondo ed inconsapevole vate della musica che sarà. I piano si alternano ai fortissimo, la pace alla sofferenza. La musica rock non sarà più la stessa.

Poche e meditate parole, brevi frasi pregne di significato, una catarsi fra il blues ed il free jazz, la musica ridotta all'essenziale, quasi a sembrare lenta, ma ricca e sovrabbondante, come fosse un controsenso. I primi tre brani, di durata consistente, compongono fra loro una mini suite ed ecco che si alternano "The raibow", "Eden" e "Desire" nel comporre chiaramente l'ascesi spirituale del gruppo verso il loro vero anelito all'estasi. Pochi scarni accordi, note plasticamente inserite nel silenzio e la febbre che sale con esplosioni di suoni e percussioni. Completano l'album altri tre brani "Inheritance", "I belive in you" - antitesi alla precedente "I don't belive in you" - e "Wealth". Un album, a mio parere, imperdibile anche e soprattutto per avere una chiave di lettura della evoluzione musicale dei decenni successivi e capire quale sia stata la formazione musicale dei gruppi rock et similia attuali. I Talk Talk, senza volerlo, hanno precorso i tempi e tracciato la via a quello che in seguito è stato definito slow-core.

Questo album, nonostante una buona accoglienza da parte della critica, non ebbe che un tiepido successo di vendite, proprio perchè troppo diverso rispetto agli imperativi musicali dell'epoca, tanto da risultare incomprensibile alle masse. Il mancato ritorno economico ed il tentativo disperato della EMI di rendere più orecchiabile almeno il singolo "I believe in you" portarono alla rottura del rapporto contrattuale con l'editore. Ma il tempo è galantuomo.

Ancora inferiore, come successo di vendite, risulta il lavoro successivo, pubblicato dopo tre anni, e non i soliti due (proprio a causa delle vicissitudini, anche giudiziarie, che avevano connotato lo scioglimento del rapporto con la EMI).


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"Laughing Stock" viene pubblicato per la Polydor nel 1991. Esso è la naturale prosecuzione del lavoro precedente e tanto si evince allorquando ascoltassimo entrambi senza soluzione di continuità. Immaginarli diversi e avulsi uno dall'altro risulta quantomeno inconcepibile. Anche questo album dimostra essere precursore di stili e sonorità in seguito codificati con la definizione di post-rock. Ergo, i Talk Talk sembrano aver inventato lo slow-core ed il post-rock, ora tanto invocati e citati.

L'incipit del disco ci sorprende con venti secondi di quasi silenzio, solo il rumore di fondo, il ciclico frinire delle cicale (così mi sembra) su cui si innestano brevi accordi di chitarra ed una linea di contrabbasso e diradate percussioni e la magnifica voce di Mark Hollis, così intrisa di sofferenza che si introduce con una sibillina : Place my chair at the backroom door, quasi a preannunciare l'abbandono, il desiderio di stare in disparte, "vi sto lasciando". E' la bellissima "Myrrhman" Un concentrato di dolore, di aneliti, di desiderio di pace, un alternarsi di silenzi e meditabondi astrattismi pennellati con gli strumenti, un viaggio senza meta che si conclude in cima ad un paradisiaco eremo dal quale proseguire osservando con distacco il mondo.

La successiva "Ascension Day" che idealmente potrebbe rappresentare il concretizzarsi dell'anelito alla pace, in realtà si dimostra il viatico e non la meta, una chitarra sovrabbondante ed acida imperversa per il brano, non i suoni che avevano caratterizzato le band degli anni 80'. La chitarra che punteggia e caratterizza i momenti di passaggio del brano, un suono acido ed aggressivo, cui da sfondo si introduce l'organo, una presa di coscienza della dannazione in terra. Un brano che si conclude in un melting pot di tutti gli strumenti troncato all'improvviso al minuto 6.00.

"After the flood" inizia lentamente, insinuandosi ritmicamente e senza riferimenti nella mente di chi ascolta, un crescendo di quasi dieci minuti di a volte ossessiva ripetizione di accordi organistici, con la voce di Mark Hollis che contrappunta gli strumenti senza sovrastarli, con un canto quasi accennato, sempre nel solco intimistico ed angosciato del disco, che si sovrappone e continua senza interruzioni nel brano seguente, introdotto dalle stesse note con cui si è concluso il precedente. "Taphead", una suite dalla struttura chiaramente jazzistica, all'insegna del minimalismo, dove Hollis sussurra il dolore ed il dubbio che lo attanaglia, archi, trombe e poesia in un loop di meditata fioritura. "New grass" è un brano della durata di quasi dieci minuti, rappresenta la meta dopo il giorno del giudizio, o forse la presa d'atto che il giorno del giudizio prima o poi arriverà; "Someday Christendom May Come", canta Mark Hollis, in una sorta di conversione, una riflessione di fede, una presa d'atto della caducità dell'esistenza innestata su un rutilante tappeto di percussioni ripetitive ed ossessive frammiste a note di chitarra e organo, ossigeno ed ascesi nel contesto di rare note di pianoforte.

L'album si chiude con "RuneII", minimalismo acustico, costituito da ripetitivi giri di chitarra nel silenzio più assordante su cui si stagliano i versi dolorosi del compositore che si concludono in un invito alla redenzione : "Slow to bleed fair son".

In conclusione, due album imperdibili, non necessariamente da apprezzare ed amare, ma da ascoltare obbligatoriamente, non fosse altro che per prendere atto (ovviamente nella mia modesta esperienza di appassionato e fruitore della musica) che senza i Talk Talk, la musica rock contemporanea non sarebbe stata quella che è.

Vincenzo Genovese


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